Grazie a un nuovo e importante sviluppo della tecnica, adesso sarà possibile rintracciare microplastiche all’interno del corpo umano: perché è importante.
Un team di ricercatori ha sviluppato una tecnica innovativa capace di identificare microplastiche nei tessuti umani senza danneggiarli, aprendo nuove prospettive nello studio degli effetti di queste particelle sulla salute. Le ricerche mostrano che micro e nanoplastiche, presenti ormai in cibo e acqua, possono accumularsi nel corpo umano senza essere eliminate: in passato, studi su topi avevano indicato che queste particelle possono raggiungere rapidamente anche il cervello.

In tal modo potevano potenzialmente contribuire a seri danni cellulari, nello stesso tempo aumentando il rischio di malattie neurologiche. La diffusione delle microplastiche è globale, spingendo gli scienziati a chiedere una drastica riduzione dell’uso della plastica: gli autori di quegli stessi studi, guidati da Lukas Kenner, sono ora impegnati nello sviluppo di questa tecnica davvero rivoluzionaria che riuscirà a individuare le microplastiche nel corpo umano.
Si tratta senza dubbio di una svolta significativa nella lotta contro l’inquinamento da plastica e per la salvaguardia delle persone: la nuova metodologia si basa su OPTIR (Optical Photothermal Infrared Spectroscopy), una forma di spettroscopia che utilizza un laser a infrarossi per stimolare localmente i materiali, e con un secondo fascio luminoso è in grado di rilevare la loro “impronta” chimica. Ma cosa significa tutto questo nella pratica?
Quando il tessuto viene irradiato, materiali diversi, pensiamo alle diverse forme di plastica come polietilene, polistirene, PET, rispondono in modo diverso. Con questa tecnica, la plastica emette un segnale caratteristico che può essere riconosciuto come “plastiche”, ma il vero salto di qualità è che questa identificazione avviene senza distruggere il tessuto: ciò vuol dire che i campioni restano intatti, conservando la loro struttura originale.
Questo passaggio permette di sapere esattamente dove – ovvero in quale area, cellula, oppure parte dell’organo – si trovano le particelle di plastica, senza alterare il campione. Nello studio pubblicato, il team guidato da ricercatori del Medical University of Vienna ha applicato OPTIR con successo a tessuti umani fissati e inclusi in paraffina: per la prima volta, è stato dimostrato che la tecnica funziona su tessuto umano reale. Un cambiamento che potrebbe risultare davvero epocale.
Fino a oggi, rilevare microplastiche nel corpo umano era un’impresa difficile, che spesso richiedeva procedure invasive o distruttive: si separavano le particelle filtrando, digerendo o smontando i tessuti, con il rischio di perdere l’informazione sul dove si trovassero. Inoltre, la dimensione delle particelle, micro o addirittura nanoplastiche, rendeva ardua l’identificazione, soprattutto se erano molto piccole. Oggi è possibile creare “mappe” della presenza di plastica all’interno di organi e tessuti, conservando l’integrità della struttura biologica.
Grazie al nuovo metodo, i ricercatori potranno, per la prima volta in assoluto, mappare la distribuzione di microplastiche nel corpo umano. Questo è fondamentale per valutare concretamente i rischi per la salute: capire se le microplastiche si accumulano in aree sensibili, se si legano a cellule specifiche e infine se co-esistono con tessuti infiammati. Con questa tecnica, sarà possibile analizzare archivi di tessuti umani già disponibili, per verificare quanto siano diffuse le microplastiche nel corpo umano.
Inoltre, mappare la plastica nei tessuti e incrociare con dati clinici, potrebbe aiutare a capire se la presenza di microplastiche è associata a malattie croniche, infiammazioni, disturbi metabolici o riproduttivi. Una volta che sarà più evidente il legame tra plastica e danni che arreca, diventa anche più chiaro come intervenire e sarà più facile giustificare norme più dure su plastica monouso, materiali alternativi, tutela ambientale e sanitaria.
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