
Gli studiosi sono giunti a queste considerazioni studiando il flusso di pomici galleggianti verso ovest nel caso delle eruzioni che si sono verificate a Tonga tra il 2001 e il 2006. Si sono accorti che le pomici hanno ricoperto una superficie lunga chilometri quadrati, circa 440 per quanto riguarda l’eruzione del 2006.
Poi hanno spiegato il processo a cui è andata incontro la pomice: “Questa massa è stata poi suddivisa dalle onde e dalle correnti in piccole isole che miliardi di organismi marini, come cianobatteri, molluschi, coralli, anemoni di mare, granchi e altri piccoli crostacei hanno utililzzato come una “zattera” per farsi trasportare per migliaia di chilometri, in alcuni casi fino a 5 mila in otto mesi“.
Attaccati alle pomici c’erano degli organismi, i quali sono stati depositati e hanno contribuito a formare la barriera corallina australiana. In sostanza gli studiosi hanno capito come fare a rifornire la barriera corallina di organismi nuovi.
Si tratterebbe di utilizzare le pomici come strumenti di diffusione della vita marina. Il tutto attraverso il verificarsi di eruzioni vulcaniche, che in questa area del nostro pianeta sono piuttosto frequenti: se ne verifica una quasi ogni 5-10 anni.
Le eruzioni vulcaniche quindi rappresenterebbero il punto di partenza fondamentale per rivitalizzare le barriere coralline. Sembrerebbe quasi un controsenso, invece in natura spesso le cose hanno un significato ben preciso, se le osserviamo dal punto di vista dei delicati equilibri naturali che regolano l’ecosistema.
Sembrerebbe assurdo sperare in un’eruzione vulcanica, eppure questa sembrerebbe essere l’unica soluzione per mantenere in vita un patrimonio ambientale ricchissimo e impareggiabile come quello delle barriere coralline australiane, che dal 1981 fa parte del patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
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